Maenza
Un borgo medievale sospeso nel tempo, dove le tradizioni artigianali e il gusto per la buona cucina ti faranno vivere un’esperienza autentica e coinvolgente!
DMO - Terre dell'olio dei papi
Scopri Maenza
Un gioiello storico incastonato tra le colline dei Monti Lepini! Con un castello baronale che domina il paesaggio e una storia ricca di miracoli e battaglie, Maenza offre un viaggio nel tempo unico. Immergiti nelle tradizioni culturali, dalle sagre alle processioni, e lasciati affascinare dalle leggende locali. Visita Maenza e vivi un’esperienza indimenticabile tra storia, cultura e bellezze naturali. Non perdere l’occasione di esplorare questo incantevole borgo!
Storia di Maenza
Maenza sarebbe sorta come insediamento originato dalla dispersione della popolazione di Privernum. Successivamente, è stato consolidato e dominato da gruppi etnici di ceppo germanico, il più importante dei quali fu il popolo dei Volsci. Nel castello di Maenza si sono insediate molte famiglie feudatarie, la più importante delle quali quella dei Conti da Ceccano. Le famiglie successive furono: gli Annibaldi, i Caetani, i Borgia, gli Aldobrandini, gli Antonelli, i De Cabanise i Pecci. Durante il feudo dei Conti da Ceccano, Maenza fu sede del primo miracolo di S. Tommaso d’Aquino, il quale vi si recava spesso per far visita a sua nipote Francesca. Maenza, come molti paesi della provincia di Latina, visse il periodo della ritirata tedesca. Un episodio molto importante durante questo periodo, fu quello della distruzione di gran parte dell’abitato in seguito al bombardamento aereo del 1944. Una lapide antica di 2000 anni inserita nel muro adiacente la chiesa di S. Eleuterio testimonia l’antica civiltà del territorio sul quale si estende Maenza. La storia del popolo maentino appartiene infatti alle popolazioni di antichissima civiltà pastorale italica, le cui remote origini sono ufficialmente individuate in un periodo che va dal XIV al XI secolo a.C. col nome di civiltà appenninica, essenzialmente agricola e pastorale. Sull’origine del nome “Maenza” sono state avanzate diverse ipotesi. Secondo alcuni esso deriva da quello dell’eroe Magenzio, il Mazentius di origine etrusca, costretto ad allontanarsi dalla patria Cere, e ricordato nel libro X dell’Eneide come alleato di Turno contro Enea. Una diversa ipotesi sul nome e sulla fondazione del paese potrebbe essere legata all’invasione dal nord Europa da parte di popolazioni germaniche che dopo la conquista del territorio edificarono qui una fortificazione, richiamandosi nella denominazione alla città Mainz, nei pressi di Francoforte sul Meno. Secondo altri, infine, “Magentia” potrebbe trarsi dalla radice Mag (crescere) che insieme a Gens (gente) vuole significare “gente che cresce”. Sulle origini di Maenza due autorevoli testimonianze sono quelle degli storici Gregorovius e Domenico Antonio Contatore. Nell’antichità la zona era abitata dai Volsci che già prima della fondazione di Roma avevano raggiunto un alto grado di civiltà e furono sottomessi dai Romani dopo circa due secoli di aspre lotte; dell’ostinazione e del coraggio con cui i Volsci difesero la loro indipendenza ci è testimone Tito Livio che di loro scrive: “ Parvero dalla sorte destinati a tenere il soldato romano perennemente in attività”. L’antica città volsca di Privernum, divenuta sotto i Romani “municipium”, fu distrutta da incursioni saracene nel IX secolo e ricostruita dove sorge l’attuale Priverno; lo storico Domenico Cantatore scrive a proposito: “Ancora si scorgono resti imponenti dell’antica città distrutta, prove sicurissime della grandezza ed importanza di quella, ma non potendo tutti i cittadini di quella stabilirsi entro le mura della nuova città, alcuni fondarono Roccagorga, altri Asprano, altri Maenza, altri Perseo, altri il Forte della Croce, altri Sonnino e quei castelli che divennero famosi, i quali tuttavia, sottomessi nel nome di S.Pietro, pagano a Priverno un tributo annuale”. Disponiamo poi di una testimonianza quanto mai autorevole: quella di Gregorovius. Nel V volume della sua “Storia di Roma nel Medio Evo”, il grande storico tedesco afferma che la maggior parte dei castelli e dei relativi borghi sparsi nel basso Lazio ebbe origine a seguito degli stanziamenti di invasori Longobardi, Sassoni e Franchi. Origine tedesca dunque sia per il nome di Maenza, che per Gregorovius va ricondotto a Mainz, sia per la casata che le dette la propria impronta e la dominò per circa quattro secoli, quella dei Conti di Ceccano, a proposito dei quali Gregorovius scrisse: “Della loro derivazione germanica fanno prova i nomi di Guido, Landolfo, Goffredo, Berardo, Rainaldo, che si mantennero nella loro famiglia”. Maenza sarebbe pertanto sorta come insediamento originato dalla dispersione della popolazione di Privernum e tale insediamento sarebbe stato ben presto consolidato e dominato da invasori di stirpe germanica: quindi radici lontane che riconducono al fiero e civile popolo dei Volsci e origini storicamente documentate che riconducono, come afferma Gregorovius, alle migrazioni di gruppi etnici di ceppo germanico. La storia di Maenza, come quella di innumerevoli borghi medioevali, si intreccia strettamente con le vicende dei feudatari dominanti. Numerose casate ebbero in feudo Maenza e tra esse figurano anche gli Annibaldi, i Caetani, i Borgia, gli Aldobrandini, i Doria Pamphili, i Borghese, i De Cabanis e i Pecci. Ma quella cui più strettamente si ricollegano le sorti di Maenza fu senza dubbio la casata dei Conti di Ceccano, della quale lo stesso Gregorovius scrive: “Nei Monti Volsci primeggia dinastia antichissima della contrada la casa dei Conti di Ceccano che, per ricchezza e dignità, era nella Chiesa tenuta in gran conto. Quei signori si erano fatti potenti prima ancora che sorgessero in fiore i Colonna; già fin dal tempo di Enrico IV si teneva nota che Gregorio, uno dei loro antenati, aveva ivi officio di Conte. La morte di lui (1104) è la prima volta che si faccia menzione di questa casa di Conti. Tra i personaggi più significativi della casata troviamo Giovanni da Ceccano, autore della celebre “Cronaca di Fossanova” che si spinge fino al 1217, e ben quattro cardinali: Annibaldo, Giordano, Stefano e Teobaldo, domenicano, che insegnò teologia a Parigi e fu in stretti rapporti con San Tommaso d’Aquino di cui contribuì a diffondere la dottrina. Dei Conti di Ceccano ricordiamo Berardo I (1204-1254) che tra i suoi numerosi feudi scelse come residenza abituale proprio Maenza e vi fece costruire lo splendido Palazzo Baronale, palazzo che ospitò anche San Tommaso d’Aquino, il quale, come risulta dai verbali del procedimento di canonizzazione, compì a Maenza il suo primo miracolo. Altro importante personaggio della casata fu Giacomo I (1299-1363) che prese parte attiva alle travagliate vicende che sconvolsero lo Stato della Chiesa nel periodo in cui la sede pontificia era trasferita ad Avignone : Giacomo I dispose che le sue spoglie fossero tumulate in una cappella del duomo di Maenza. Tra gli avvenimenti che portarono Maenza alla ribalta della storia, un fosco episodio avvenuto nel settembre del 1123. Un familiare pontificio di nome Crescenzio, forse incaricato dal Papa di riscuotere i tributi dei feudatari della zona viene assassinato nel territorio di Maenza e rapinato di tutto quanto porta con sé. Il Papa Callisto II ritiene responsabile del fatto il Signore di Maenza, contro il quale fa muovere immediatamente le truppe pontificie; il paese viene occupato ed il feudatario, dopo un processo sommario, decapitato sulla piazza del castello. L’episodio è sintomatico della situazione di costante conflittualità esistente all’epoca tra la Santa Sede, che andava progressivamente consolidando il controllo politico-amministrativo sul proprio territorio, ed i feudatari, che, gelosi della loro autonomia, tentavano di resistere all’opera accentratrice dei Papi. Anche successivamente, a seguito di altre ribellioni dei feudatari della zona, Maenza con altri centri limitrofi fu di nuovo occupata dalle truppe pontificie inviate da Papa Onorio III (1216-1227). Sempre nell’ambito delle contese territoriali, ed in particolare della secolare rivalità tra Orsini e Colonna, rientra un significativo evento della storia di Maenza: con una bolla del 28 maggio 1300 Papa Bonifacio VIII, sostenuto dagli Orsini, confiscò il feudo dei Conti di Ceccano, che erano schierati dalla parte dei Colonna, e lo passò direttamente sotto il dominio del cardinale Matteo Orsini. Maenza tornò ai Conti di Ceccano nel 1304 per volere di Papa Benedetto XI che pretese però da loro formale atto di sottomissione. Fra i rappresentanti della casata dei Conti di Ceccano l’ultimo Signore di Maenza fu Raimondello, che la ebbe in Feudo dalla madre Margherita, figlia di Giacomo I; Raimondello rinnovò il castello e fece costruire una nuova cinta muraria. Dal 1346 Maenza passò ai Caetani e successivamente, come già detto, a varie altre casate che, però, le attribuirono scarsa importanza e la trascurarono lasciandola lentamente decadere; il colpo di grazia Maenza lo ricevette nel 1520, quando fu saccheggiata e distrutta da Giovanni dalle Bande Nere, inviato da Papa Leone X. Un altro Papa Leone, dopo quasi quattro secoli, si interessò nuovamente di Maenza e fortunatamente in termini positivi, si tratta di Leone XIII (1878-1903), nativo della vicina Carpineto. Il feudo passò infatti alla famiglia dei Conti Pecci di Carpineto, che diede i natali a Gioacchino Pecci, e l’allora Papa Leone XIII, amava trascorrere lunghe giornate di caccia nel ricco territorio maentino ed in paese, dove i Pecci possedevano una bellissima abitazione con giardino posta all’ingresso del paese (Palazzo Pecci, attualmente sede del Municipio). Notevole fu l’impulso che il Papa diede alle attività di carattere religioso: fu ricostruita la chiesa collegiata di S. Maria Assunta in Cielo (attuale cattedrale) e fu istituito un “Educandato per le fanciulle di civil condizione” diretto dalle suore Adoratrici del Preziosissimo Sangue fondato da S.Maria De Mattias. I tempi cambiano, ed avanzano le forze borghesi: nel 1930 gli eredi Pecci alienano a favore del Com. Ercole Micozzi quasi tutti i loro beni siti nei comuni di Priverno e Maenza. Fra gli avvenimenti di maggior rilievo ricordiamo la rivolta del Marzo 1911, l’epidemia Spagnola del 1918 e la distruzione di una parte dell’abitato a causa di un bombardamento aereo nel 1944. Nel 1928 il Comune fu soppresso e Maenza fu collegata a Priverno; è tornata sede comunale nel 1947 (per le sofferenze patite dalla popolazione durante questo ventennio è stata proposta la medaglia d’argento al merito civile).
CASTELLO BARONALE
A circa 360 metri di altezza, sulla cima di un colle appartenente alla catena dei Monti Lepini, sorge Maenza. La suggestiva cittadina è dominata dall’imponente castello dove fu ospite San Tommaso d’Aquino nei giorni che ne precedettero la morte.
Intorno all’XI-XII sec., la già accentuata antropizzazione del territorio circostante la Valle di Mezzagosto ebbe una forte accellerazione a seguito dell’abbandono della Privernum romana da parte dei locali per sottrarsi alle devastazioni saracene. Intere popolazioni si arroccarono in aggregazioni sulle più sicure alture circostanti, dove in rapida evoluzione diedero vita ad insediamenti fortificati.
Nella realtà di Maenza furono i Da Ceccano, antica famiglia feudale di probabili origini tedesche, a diventarne i primi Signori. Gli anni di possedimento dei Da Ceccano furono caratterizzati da complesse vicende politiche e familiari.Importante fu il periodo nel quale Maenza appartiene a Margherita, figlia di Riccardo Da Ceccano che, con il testamento redatto nel 1384, nominò suoi eredi universali il proprio figlio Raimondello De Cabannis e le sue due figlie Margherita e Antolina.
Raimondello fu il primo Signore del feudo ad apportare quelle modifiche ed ampliamenti ritenuti necessari per conferire alla struttura quell’aspetto di grandiosità e potenza che oggi possiamo ben ammirare. Il suo intervento strutturale comprese anche l’avanzamento della cinta muraria fino ad inglobare l’attuale via dei Villici. A seguito del matrimonio di Margherita, primogenita di Raimondello con Francesco Caetani (1436), finisce il possesso dei Da Ceccano ed inizia quello dei Caetani che con ulteriori interventi strutturali provvedettero ad inserire nell’insediamento anche sotto l’aspetto architettonico, elementi di grande pregio.
Nel 1597 il feudo di Maenza viene ceduto a Giovanni Francesco Aldobrandini che a sua volta sul finire del XVIII sec., lo cede al Cardinale Antonelli di Sonnino. Dopo gli Antonelli succedettero i Conti Pecci di Carpineto, casato che ha dato i natali a Leone XIII.Dai Pecci, nei primi anni del XX sec., il feudo viene alienato a favore di un ricco uomo d’affari, il commendatore Micozzi.
Nella metà degli anni ’60, a seguito del dissesto finanziario del succitato commendatore, tutto il patrimonio viene messo all’asta. Il castello Baronale diventa così di proprietà della Provincia di Latina che ne ha curato il restauro (1975/1979-1983/2001). Ora è completamente recuperato e messo a disposizione della collettività.
Gli attributi di difesa
Nella fase embrionale della sua costruzione, il castello era poco più di un recinto in muratura con una torre di avvistamento. Questa prima torre è oggi integrata nella struttura del castello e facilmente individualbile grazie alla cisterna del pianterreno. Le mura di cinta sono completamente scomparse ma parte delle fondazioni sono state rintracciate durante gli scavi, nei lavori di restauro.
La piccola fortezza si trasforma in castello attraverso varie fasi costruttive.
E’ ben visibile il passaggio tipologico per attrezzare la struttura per difendersi dalle armi da fuoco (parte delle feritoie per archi sono trasformate per accogliere archibugi e cannoniere). Vengono mantenuti, sui lati di Nord-Ovest e Nord-Est, i vecchi merli Guelfi, pur obsoleti. Ed è questa una particolarità del castello di Maenza come ben evidenziato nella parete più lunga del salone per conferenze al 4° livello, dove è possibile trovare una tripla successione di spalti merlati.
Il castello sorge in posizione dominante rispetto al territorio circostante, collegato visivamente con altre fortezze, tra le quali Asprano, ma anche con Priverno e con la Valle di Mezzagosto, a dimostrazione di un’ottima scelta edificatoria e strategica. L’ingresso del castello è il più fortificato, vi si leggono tutti gli elementi di difesa attiva e passiva, dalla caditoia alla botola assassina, dalla grata di sbarramento alle asole di alloggiamento delle barre di protezione, fino alle tracce di un piccolo ponte levatoio. Ma si leggono anche le fasi trasformative, opere principalmente dei Da Ceccano, dei De Cabannis e dei Caetani.Le stesse torri sono una vera ricchezza tipologica perché vanno da quella gotica dell’ingresso alla torre contrafforte di Piazza Duomo, da quella circolare di matrice rinascimentale al torrione seicentesco coronato con merloni e nel quale troviamo una interessante doppia cannoniera incassata nelle spesse mura.
Con l’avvento delle armi da fuoco, il castello è stato massicciamente rinforzato nello spessore dei muri ma senza subire cimature in altezza che lo avrebbero reso architettonicamente tozzo. Infine, pur mantenedo tutte le caratteristiche di fortezza complessa, la trasformazioni in «residenza« è intuibile soffermandosi sugli elementi decorativi interni apportati, sopratutto al terzo livello.
Caratteri stilistici
Il Castello è una possente opera in pietra locale, e più che una residenza familiare è una fortezza; si presenta in forma quadrangolare (lati quasi uguali), si sviluppa su quattro livelli e con quattro torri sporgenti, delle quali una semicircolare è posta a “rompitratta” e le altre tre di forma quadrangolare. Queste ultime avevano una parziale utilizzazione come difesa attiva mentre quella circolare, completamente inaccessibile, aveva funzioni di cisterna.
La genesi costruttiva del castello di Maenza è classificabile in circa 750 anni a partire dall’anno mille. Ha quindi attraversato stagioni architettoniche che vanno dal romanico al barocco. Anche se la tipologia dei castelli si è evoluta attraverso un particolare itinerario costruttivo, troviamo in quello di Maenza molti elementi stilistici riconducibili ai vari periodi.Le basse arcate e nel suo complesso il salorro al secondo livello, olte ai possenti portali a tutto sesto, fanno pensare ad un gusto romanico ancora persistente.
Ilportale in pietra a sesto acuto dell’ingresso e la corrispondente torre d’angolo, sono segni di uno stile gotico essenziale. I portali elaborati, alcuni caminetti, il torrione circolare non più coronato e tutto l’ampliamento sono di chiaro richiamo rinascimentale e manierista.
Poi segue un periodo legato per lo più a decorazioni di vario tipo, oggi quasi totalmente scomparse, ma che dovevano essere improntate sul nuovo stile barocco.
Pitture murarie
Il castello un tempo doveva contenere ampie superfici murarie dipinte a carattere essenzialmente decorativo.Alcune di queste sono state recuperate grazie ad una ricerca sotto scialbo, e tutte consolidate. Per quella del corridoio al secondo livello, composta da dieci riquadri a coppie gemelle di stile grottesche, è stato possibile effettuare anche la ripresa pittorica già con il restauro conclusosi nel 2001.
Interessanti sono quelle della stanza detta di S. Tommaso, il sopraporta (stemma degli Aldobrandini) ed il caminetto che si trovano al terzo livello (piano nobile).
Tracce archeologiche
Durante i lavori di restauro sono stati rinvenuti alcuni oggetti in ceramica databili tra l’XI e il XII secolo, frutto non di uno scavo sistematico ma di recupero in vari ambienti del castello.
Gli oggetti, quasi tutti allo stato frammentario, sono per lo più attribuiti ad officine del Lazio meridionale e sono caratterizzati da una certa omogeneità, sia nella forma che nelle decorazioni.
TRADIZIONI
Le tradizioni maentine sono strettamente collegate ad una cultura contadina che recava evidenti tracce di un paganesimo sempre riaffiorante, vanno lentamente estinguendosi. Tra le usanze definitivamente scomparse quelle del “ciocco” e della “panarda”: il “ciocco” era il caratteristico sedile di sughero che il pretendente portava in casa della ragazza con cui chiedeva di potersi fidanzare; se il “ciocco” veniva messo accanto al camino il fidanzamento era accordato. La “panarda” era una zuppa di fave che, in occasione della morte di un fanciullo, veniva posta sull’uscio di casa in un recipiente di legno (“capistero”) e offerta ai bambini poveri.
Ogni anno poi in paese passava “l’annesaro” che veniva a barattare i semi di anice, necessari per aromatizzare le tradizionali ciambelle, con olio o con olive affumicate sotto la cappa del camino, come affumicate sono le “coppiette” di carne di cavallo che servivano, perche’ molto piccanti, per la “passatella”.
In prossimita’ della Pasqua nelle case si usava lucidare gli utensili di rame con il limone e sabbia ed i mobili con olio ed aceto battuti; e si preparavano i dolci “recresciuti”, le “pupe” (a forma di bambola con le trecce), la “tasca” (a ferro di cavallo) che generalmente conteneva un uovo intero, il “ganascione” o “caciatella” (crostata di ricotta e uova). Nel Venerdi’ Santo, dal 1970, ideata da Padre Fastella, si rappresenta la spettacolare Passione di Gesu’, sacra rappresentazione dal 2000 iscritta all’Europassione, divenuta ormai un evento da non perdere.
Per il carnevale si costruiva un pupazzo, la cui pancia era costituita da una damigiana; i “compari” del pupazzo giravano di casa in casa chiedendo in offerta del vino e quando la damigiana era piena portavano il fantoccio in piazza per festeggiare con abbondanti libagioni la fine del carnevale; alla fine il pupazzo veniva bruciato tra l’allegria (…e l’ebbrezza) generale. Sempre per il Carnevale era toradizione dal 1970 anche il Festival Canoro dei bambini, anch’esso ideato da Padre Fastella.
Tra le tradizioni religiose ricordiamo ancora il pellegrinaggio al Santuario di Vallepietra e le rogazioni di primavera (benedizione dei campi). La feste del patrono S.Eleuterio si ha il 29 maggio, con una bella fiaccolata vespertina che partendo dal paese arriva sino alla chiesetta di campagna dedicata al santo. Un’altra processione molto seguita si svolge in occasione dei festeggiamenti dell’Assunta e di S. Rocco, il 15 e 16 agosto, con relative serate musicali.
Momenti di incontro e di grande animazione sono la Sagra delle Ciliegie che si svolge dagli anni Cinquanta ogni prima domenica di giugno, le tradizionali fiere di merci e bestiame dell’Annunziata (25 aprile) e delle “Fischie” (22 settembre), il contenitore autunnale di mostre, cultura e gastronomia “Autunnando”, e infine le manifestazioni del periodo natalizio con i presepi nelle cantine del centro storico, il presepe vivente e la sagra delle crespelle (frittelle con uva passa e pinoli tipiche del capodanno maentino).
Tradizioni e superstizioni
Le vie in pietra serena, e le lunghe scalinate consunte dal tempo, nelle sere estive, si trasformano in tanti salotti. La gente vi si raduna a parlare del tempo antico, eppure così tanto vicino, quando la porta di casa si chiudeva ancora
con la sola “communella”, serratura a tipo unico per tutte le abitazioni; oppure con il ” calascigno”, funicella che era sufficiente tirare per aprire la porta.
Ancora oggi si raccontano, con la sicurezza di fatti vissuti, di briganti, dì streghe e di leggende dalla più assurda superstizione.
C’è chi giura di aver sentito battere l’orologio dì S. Pantaleone sul muro con colpi ritmici per annunciare che entro l’anno sarebbe morta una persona di famiglia. Qualcuno racconta di aver visto, nelle notti di luna, un uomo
trasformarsi in lupo (luponaro).
Altri invece affermano che unico rimedio contro le streghe è quello di mettere una scopa di saggina dietro la porta, poiché le Streghe allora saranno costrette a contarne tutti i fili che la compongono prima di entrare nella casa.
Il tempo passa, l’alba si avvicina e le streghe sono costrette a fuggire senza aver potuto danneggiare gli abitanti.
L’anima di un popolo è nelle sue leggende e nei suoi costumi che sono testimonianza di un mondo sempre vivo ma tuttavia inavvertito dai più solo perché è parte integrante del tradizionale modo di vivere della stessa gente.
Ne riportiamo, pertanto, solo alcuni dei più caratteristici riguardanti una Maenza presente o appena passata.
Le crespelle e gli auguri di Buonanno
Una consuetudine antichissima e che si ripete ogni anno è questa: un banditore pubblico, la sera di San Silvestro, percorre tutte le strade del paese accompagnato da un’altra persona con tamburo.
Ad ogni abitazione sosta e, dopo aver suonato la tromba e fatto rullare il tamburo, grida a gran voce il nome del
capofamiglia, ne enumera i meriti augurando milioni di guadagno per l’anno venturo.
Chiude il suo dire con la formula antica:
e te lo dico per cortesia bon giorno i bon Capodanno a vossignoria!
Quella sera ogni famiglia attende il banditore stando intorno al fuoco della cucina, dove si friggono le rituali crespelle, che è un dolce composto di uva secca, mandorle, noci, pasta di” farina e cosparso di miele dopo la frittura.
Non c’è abitante di Maenza che non abbia legato ai propri ricordi d’infanzia gli auguri di “bonanno” dati dagli inseparabili amici “zi’ Valente e zi’ Rutilio”.
I campanacci
E’ questa una consuetudine che si può considerare quasi scomparsa in quanto ritorna raramente a farsi sentire nelle strade di Maenza.
Quando si sposava un vedovo gli amici si riunivano, la stessa sera delle nozze sotto la casa dei novelli sposi dando inizio ad una lunga serenata in cui prevaleva il suono dei campanacci, tolti dal gregge, e quello dei corni.
Se lo sposo era un uomo di spirito invitava tutti a bere e la serenata, poco armoniosa, aveva termine altrimenti proseguiva fino all’esaurimento dei suonatori. Inoltre gli amici avevano l’ironica premura di preparare sulla porta di casa degli sposi un arco fatto con fiori o con foglie di sambuco, invece dei tradizionali fiori di arancio.
Il proverbio non sbaglia mai
Quando un abitante di Maenza chiude la discussione con un proverbio è inutile insistere poiché ha deciso, secondo la legge degli antenati, giusta nel passato come nel presente.
Spesso il proverbio deriva da osservazioni di fenomeni naturali, come “se si scura la valle de Carpeneta, neve o bufera” oppure risponde a regole di buona agricoltura, che nessun contadino si azzarderebbe a contraddire: “si teta tira a gli alboro de liva quando piove è megli che tiri a moglieta“.
Infatti se l’albero d’olivo è battuto quando è bagnato si arrossa nelle foglie e per molti anni non da più frutto.
Il seguente proverbio, invece indica il tempo in cui inizia la maturazione dell’uva: “Sagnaco pizzica a gliu vaco” (quel pizzica sta a significare la prima colorazione violacea del chicco d’uva).
Quando la produzione dell’olivo è scarsa si suol dire “quando non lavora la sporta Maenza è morta!“
Ma a volte il proverbio, in apparenza incomprensibile, rivela legami con la storia che la comunità ha vissuto per secoli, come nel seguente: “la robba de la stola sciuscià ca’ vola“.
Il proverbio si riferisce ai tempi passati quando la chiesa o le confraternite religiose ereditavano, per la salvezza dell’anima di un defunto, terreni che davano a colonia. Chiunque avesse rubato in questi terreni avrebbe commesso un’azione quasi sacrilega ed il proverbio era lì per ammonire.
La sottile ironia della nostra gente si rivela anche ora, quando afferma “a Maenza si pianti lupini nascono cantonieri alla Rocca (Roccagorga) musicanti” e nel paradosso, come sempre, c’è un minimo di verità.
La fiera
La fiera era un avvenimento atteso. Si iniziava con quella dell’Annunziata, presso la chiesetta omonima sulla strada carpinetana dove si celebrava la S. Messa. Era l’occasione per la prima scampagnata.
Vi erano quindi le fiere di S. Eleuterio, di S. Rocco in paese e quella in aperta campagna delle Fischie.
Le spese di un anno, in gran parte, erano compiute in queste ricorrenze. Vi partecipava la popolazione in massa. Il giorno innanzi erano già rizzate su di un prato lunghe tavole preparate per i futuri clienti. La cucina era all’aperto e la pietanza era unica, cioè carne di capra al sugo condita con peperoncino o cucinata sui carboni. Fiaschi di vino locale, bianco o rosso, a spegnere la sete.
I guadagni realizzati nella vendita del bestiame e gli acquisti fatti mettevano un’allegria generale.
Sulla strada del ritorno la scopa di saggina, il fischietto o il maialetto che strillava erano i simboli della visita fatta alla fiera.
Ora, caduta la spinta economica che le animava un tempo, le fiere hanno perduto gran parte dell’attrattiva e della funzione originaria.
Il corredo ad una zitella
Per consuetudine antica, risalente al Medioevo quando Maenza, Roccagorga ed Asprana facevano parte di un sol feudo, ad un’attempata ragazza di Maenza veniva offerta la somma di 25 scudi, somma necessaria per l’acquisto del corredo o, forse, per invogliare qualche giovanotto a maritarla.
Il nome della zitella veniva estratto a sorte, su altre due concorrenti, “pubblicamente ” in chiesa durante la messa cantata del giorno della festa del nome di Maria 12 settembre.
La somma di 25 scudi forse proveniva dall’affitto di qualche sorgente posta in territorio di Maenza o dal pedaggio pagato per qualche ponte. Però pare inverosimile che la somma venisse pagata dal Comune di Roccagorga in quanto il territorio comunale maentino includeva metà Piazza di questo paese.
Il ciocco
Un ciocco, caratteristico sedile di sughero, in altri tempi era l’indispensabile mezzo per fidanzarsi.
Il giovane che desiderava una ragazza, dopo aver fatto il ciocco ed averlo adornato con nastri, di sera andava alla casa della futura sposa e presentandolo al padre diceva: “so fatto sto ciocco pe’ figlieta”.
Se il ciocco era preso e messo accanto al grande focolare, significava che l’aspirante era ammesso in famiglia; altrimenti si rispondeva “nun ci sta gliu posto vicino a gliu foco”. Questo significava che il giovane era respinto.
E evidente la derivazione di questa usanza da qualche antica cerimonia pagana quando l’ammissione al focolare domestico era come porre la persona sotto la protezione dei Lari, divinità della famiglia.
La panarda e gliu cunzio
La “panarda” era la cerimonia legata ad un triste evento ed ora sostituita con l’elemosina in denaro.
Dopo i funerali i parenti del defunto offrivano un pranzo al quale tutti potevano intervenire, ma di solito erano i ragazzini più bisognosi del paese ad accorrervi. Esso si preparava dinanzi all’abitazione del morto. I partecipanti dopo aver recitato la preghiera per l’anima del trapassato si accostavano al tavolo per consumare una zuppa di pane e fave, che spesso era l’unica pietanza servita
“Gliu Cunzio” era invece il pranzo che per alcuni giorni i parenti si incaricavano di portare alla famiglia del defunto.
Il focolare spento indicava il lutto che aveva colpito la famiglia.
Te se puzzi muri’ aseno i porco
II giorno di S. Antonio Abate si riunivano nei pressi della chiesetta dedicata al Santo una folla di persone. Ciascuno portava la propria bestia per la rituale benedizione.
Era questo un giorno di festa per i ragazzi del paese, i quali, dopo aver assistito alla cerimonia, andavano di porta in porta chiedendo fichi secchi, mandorle, aranci, noci e “paccolozze”. Ogni massaia offriva ciò che aveva messo in serbo per l’occasione. A chi non dava niente i ragazzi facevano in coro il terribile augurio “te se puzzi muri aseno i porco”.
Dopo questa minaccia raramente se ne andavano a mani vuote.
La “regna” alla Madonna del Buon Tempo
Siccità, grandine, inondazioni e terremoti sono state le calamità naturali sempre temute dalle società ad economia agricola sottosviluppata.
Maenza si garantiva contro tali calamità con una sentita devozione alla Madonna del Buon Tempo.
La tradizione popolare vuole che il venerato dipinto sia stato rinvenuto, tempi or sono, da un canonico maentino e da questi posto alla venerazione del popolo. E’ un quadro raffigurante la Madonna con il Bambino, restaurato e ricoperto di argentone l’anno 1849 ed è ancora gelosamente custodito sull’altare vicino all’ingresso della sacrestia.
La devozione a questa Madonna si faceva vivissima allorché si profilava una calamità. Immediatamente popolo e clero indicevano una pubblica processione di penitenza che, partendo da Maenza, raggiungeva la rurale chiesetta di S. Eleuterio posta nel cuore dell’amena vallata. In questa circostanza tutti imploravano la protezione del Santo patrono e della Madonna del Buon Tempo.
Inoltre tutti gli anni, particolarmente quando il raccolto si prevedeva abbondante, ogni famiglia offriva alla Madonna del Buon Tempo la sua “regna” (gregna) di grano cioè un fascio di covoni del miglior mietuto. Completata l’offerta, le “regne” venivano battute e con la farina ricavata si confezionavano le ostie per lo anno venturo.
Oggi non si hanno più segni di questa significativa offerta.
I “babbalucchi”
Fino al 1949 la sera del Giovedì Santo, all’approssimarsi delle tenebre, lungo le strade di Maenza si snodava una impressionante “compagnia”.
Erano “I BABBALUCCHI”! così li aveva chiamati il popolo quando per la prima volta li vide procedere per le strade contorte e semibuie portando una nuda croce nera con in cima un bianco lenzuolo.
Il loro numero era limitato ad una diecina di ” fratelloni “, tra questi i quattro fratelli Polidori che ne costituivano il nucleo centrale.
Costoro erano, nella vita giornaliera, personaggi paesani piuttosto ameni ma quella sera subivano una sorprendente trasformazione.
Vestivano un bianco e svolazzante camice; sul capo portavano un cappuccio anch’esso bianco e con due fori all’altezza degli occhi. Ciascuno aveva in mano una torcia accesa.
I babbalucchi dopo essersi disposti a cerchio, davano inizio al canto di una “nenia” lugubre ed addolorata che spesso terminava con accenti di primitiva e volgare polifonia.
La scena destava enorme impressione in quanto (al silenzio creatosi con il canto seguiva immediatamente un assordante fracasso prodotto da numerose frotte di ragazzi armati di “schiappe” (pezzi lunghi di corteccia di
castagno o di guaina di agave) che, battute ad arte sulle porte, producevano effetti tellurici per le povere case maentine.
Forse tutto ciò era come un seguito delle cosiddette ” Scurdie ” (dal latino “scutica ” cioè scudiscio o staffile e che voleva significare il rumoreggiare fatto in chiesa a termine dell’ufficio delle tenebre).
“Mini o te taglio!”
“Mini o te taglio” era la minaccia che il contadino maentino rivolgeva alla pianta da qualche anno improduttiva.
La minaccia non veniva rivolta un giorno qualunque ma il Sabato Santo allorché iniziava il suono delle campane della Resurrezione. In quel preciso istante il contadino maentino si armava di un’ascia e col retro di questa batteva le varie parti del tronco della pianta impigrita ripetendo “Mini o te taglio ” cioè ” Produci o ti recido? “.
Taluni, invece, usavano un vincastro.
Il rito, se così possiamo chiamarlo, risale al tempo dei romani quando, allo spuntar della primavera, essi si portavano in processione lungo i campi fiorenti aspergendoli ed invocando la divinità dei frumenti.
Oggi simile battitura delle piante non viene quasi più praticata essendo la tecnica ed il progresso chimico capaci di migliori e sicuri miracoli. E poi la maggior parte dei campi è stata abbandonata.
Na soccita de pane
A na cert’ora passeva la furnara i deva l’ammassa. I tutti stevano ancora a dormì. Doppo, quando la massa era cresciuta repasseva i diceva che era ora d’enfornà.
Allora se mettevano le pagnotte de pano dentro gliu capistero, se preparevano i testi i se portevano a gli fumo. Gli utteri a uno a uno se sbiglievano levano da la madre pe fasse fa gliu paniceglio. Aspettavano addafori, giochenne a buttuni i cà vota puro co ca boccol ca centesimo a battimuro o a lippa.
Arriveva gliaddoro dei pudie delle mortelle che s’appiccevano sparenno, i quando la furnara cacceva le pizze i subito rappileva gli fumo pe nu gli fa sbenda, gliu profumo de pano frisco arriveva fino addapeti gliu vicolo.
Le ferrimene levano cà vota a gliu fumo vicino a gliu comune, cà vota pure a chiglie della via maiuni, sinnò a gliatro che stàmmeso alla Villanza a secondo addò abbitevano.
Mò i fumi a lena non ci stanno più e lo pano è sempre frisco ma dicono che n’é bbono come a chiglio!
Costumi maentini
Vestivano un panno duro e nero chiamato “pelle di diavolo”; giacca normale e calzoni troncati sulla linea del polpaccio da cui si dipartivano le “strenghe” o striscie di cuoio che reggevano le “ciocie”. Il piede era coperto o meglio fasciato da una bianca pezza di lino. Alcuni ornavano la punta delle ciocie con fiocchetti dai colori vivaci e sgargianti. I calzoni erano sorretti intorno alla vita da una lunga e larga fascia di panno rosso o verde raramente bianco.
Molti portavano baffi regali e, possibilmente, con la punta in su. Quasi nessuno si ornava di barba.
La donna maentina (poteva essere anche di Roccagorga, di Prossedi, di Carpinete o di Priverno, tanto erano uguali nel vestire!) da bambina copriva la testa con la “cuffietta”; da ragazza restava a capo scoperto per dare evidenza alla propria capigliatura folta e corvina; da sposata si ricopriva nuovamente il capo con il “Fazzolettone” o grosso scialle che serviva a coprire anche spalle e schiena.
Fin dalla pubertà (assai precoce) la donna maentina usava vestirsi spezzato: “corpetto” e “unnella” con colori diversi e violenti. I seni erano sorretti dal capace busto formato da panno forte e da flessibili stecche di bambù leggermente
rientranti nella parte inferiore verso la vita.
La “unnella” era, in buona parte, ricoperta dallo “zinale” sorta di parannanzi che ricordava alla donna di essere sempre pronta ad accudire ai lavori domestici.
Procedendo negli anni la donna maentina accresceva il suo ornamento con la “saccoccia” che veniva appesa intorno alla vita (residuo settecentesco); la sua forma era ampia e capace di contenere tutti gli oggetti indispensabili per il lavoro femminile.
Altro ornamento erano i “coragli” e le “coraglie”. I “ceragli” erano alcune perle di corallo, frammiste a ninnoli di oro, appese al lobo inferiore delle orecchie (all’uopo a tutte le bambine gli venivano forati i lobi auricolari) mentre le “coraglie” erano varie file ad ampiezze diverse messe intorno al collo e spioventi sul petto; anch’esse contenevano perle di corallo e ninnoli di oro massiccio. I ” coragli ” e le ” coraglie ” passavano, come una eredità, da madre a figlia.
Tuttavia i vestiti dell’uomo e della donna si confezionavano in casa e ciò in modo spicciativo particolarmente quando la confezione riguardava l’uomo. La statura media del maentino era normale e la corporatura solida e vigorosa sino a tardissima età. Tenace nei lavori, si concedeva lunghi e meritati riponi estivi.
I malanni si trascuravano o al più curati con rimedi tradizionali e naturali.
La gioventù era florida e sana: quella femminile spiccava per la sua sana ed agreste bellezza sì da richiamare lontani pretendenti.
II matrimonio era fecondo e rispettato. La proprietà era sacra come la propria vita ed il lavoro segno di onestà e di orgoglio e tutti lavoravano, diversamente si veniva classificato “spullacchione” cioè scansa fatica: ciò era sommamente
riprovevole!
Chi si dava all’artigianato era “artista” e quando i suoi lavori risultavano difettosi lo si ingiuriava chiamandolo “artistaccio “.
Le liti riguardanti proprietà o danni subiti, in un primo momento venivano risolte dai “periti”, uomini di nota probità ed equità; costoro usavano la canna come unità di misura. La perizia da loro compilata assumeva valore legale. Raramente si ricorreva ai professionisti.
I centri sociali o luoghi di maggiore intensità di rapporti o di divertimento erano distinti per sesso e per età.
Ogni sera e durante le giornate piovose gli uomini di Maenza si ritrovavano alla piazza coperta che in quelle ore diventava “foro” “tribunale” e “stadio”.
Per i ragazzi (gli utteri) erano riservate le varie piazze, con preferenza la Portella, e le strade interne ed esterne del paese. In questi luoghi ripetevano, secondo un calendario stagionale, i vari e tradizionali giucchi: il gioco del “rozzico” e della “lippa”, dei “buttuni” e del “piccaro” dello “schioppitto” e della “guerra” rionale.
Le donne invece s’incontravano quando andavano a “toglie” l’acqua o alla “funtana” dove si lavavano i panni e si rinverdivano litigi e pettegolezzi. Non era infrequente vedere le più anziane, sempre vestite di nero, starsene a
frotte nei punti più strategici delle strade oppure in chiesa o sulla porta della chiesa dove i misteri di Dio originavano misteriosi matrimoni.
Le ragazze o “giovanotte” (dai dodici ai sedici anni) in certe ore intensificavano il loro “defilé” dinanzi alla piazza coperta sperando che qualcuno preparasse presto il “ciocco”.
Passando agli alimenti al primo posto troviamo la polenta: la profumata ed ingannevole polenta! Alle cinque della sera tutti i “cammini” fumavano azzurognolo spandendo intorno l’odor di cotto e di companatico. Polenta alla “spianatora” in casa, polenta alla “schiazza” in campagna ma sempre dorata e morbida!
Poi c’era il pane che si distingueva in bianco, in nero ed in rosso: strana bandiera!
Il primo veniva confezionato con sola farina di grano; il secondo lasciandovi anche la crusca; il terzo aggiungendo farina di granturco a quella di grano. Con il pane si confezionavano le “pizze” che logicamente si distinguevano in
bianche e nere a cui si aggiungeva la “pizzola” che andava consumata immediatamente.
La carne consumata ordinariamente era quella di capra oppure quella di maiale che le tante famiglie maentine ingrassavano ed uccidevano annualmente. In quest’ultima circostanza si usava portare il piatto di carne al
vicinato “amico”.
E poi c’erano le “coppiette” fatte con la carne delle bestie macellate; carne che, spezzettata attorcigliata ed affumicata, si spalmava abbondantemente di peperoncino. Si offrivano ai bevitori per completare la sbornia.
Talvolta, del resto, non mancava la selvaggina come la lepre, la volpe, l’istrice ed il tasso; tutte vittime degli autunni maentini.
Terminiamo con la “bruschetta” che era rituale al frantoio (montano) dopo la macinatura delle olive; serviva per farsi un buon bicchiere di vino insieme agli operai dello stesso frantoio e per gustare i pregi del prodotto.
DMO - TERRE DELL'OLIO DEI PAPI
Lune della DMO
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